TERRITORIO
Il Piceno e il vino, un legame antico
Anche in questa parte di Italia, agli inizi della viticoltura e della vinificazione troviamo gli Etruschi e i coloni provenienti dalla Grecia, parliamo quindi di quella parte di storia compresa tra il X e l’VIII secolo a.C., momento nel quale è possibile datare gli albori del vino del Piceno.
In questa zona, la produzione abbondante di vini generosi e potenti ha attratto importanti figure della storia che per caso, come Annibale e le sue truppe o per curiosità come gli storici e i poeti dell’antica Roma, tra cui Catone e Plinio il Vecchio, Varrone e Culumella, hanno avuto modo di apprezzare e descrivere la tradizione vitivinicola delle terre picene.
E più tardi, già dopo il Rinascimento, i vini del Piceno vengono definiti “potentissimi” da Andrea Bacci, medico di Papa Sisto V e cultore della già allora variegata produzione vinicola italiana.
In questi passaggi di storia, si può notare come nei secoli i metodi di coltivazione siano stati perfezionati.
Dai vigneti specializzati dell’epoca basso medievale si è passati agli arativi vitati, un metodo per massimizzare i prodotti dei campi, che prevedeva il maritare la vite ad altre colture o alberi, per arrivare oggi a filari ordinati e regolari che disegnano il paesaggio collinare.
Il cambiamento che ha coinvolto il vino è stato anche culturale. Nel periodo della mezzadria, il vino era considerato un alimento che integrava la dieta povera dei contadini.
Autoconsumo e scambio con altri prodotti, erano queste le funzioni del vino che portavano a privilegiare la quantità alla qualità.
E oggi? Oggi, nelle terre del Piceno si coltiva, ricerca ed esalta la qualità.
Le due rivoluzioni del vino nel Piceno
Fra 1880 e 1890 giunsero anche nel Piceno i flagelli della Peronospora e della Fillossera, vinti solo attraverso l’impiego dei portinnesti di vite americana. La nascita nelle Marche delle Cattedre Ambulanti di Agricoltura – la più importante istituzione di formazione agraria – fu decisiva per il miglioramento delle tecniche di coltivazione e il rinnovamento degli impianti. Ma ci fu anche una rivoluzione nelle varietà clonali coltivate, con l’introduzione di vitigni completamente sconosciuti nella storia enologica delle Marche e del Piceno.
Nel 1905, lo studioso Arzelio Felini scrisse nei suoi Studi Marchigiani che: “è oltre un ventennio che i nostri viticoltori, nel tentare di risolvere il problema enologico marchigiano, hanno abbandonato si può dire la moltiplicazione delle caratteristiche varietà dei vitigni nostrani, quali le vernacce, i Verdicchi, i Biancami, per introdurre vitigni del nord e del sud” (I vini delle Marche, Assessorato all’Agricoltura della Regione Marche, 2004).
Fanno il loro ingresso il Sangiovese, il Trebbiano, e con il tempo anche i cosiddetti vitigni “internazionali” come Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay. La produzione diventa più razionale, finisce la mezzadria, nascono nuove figure di proprietari.
Negli anni ’80, i vitigni autoctoni, come il Pecorino, sono dimenticati. Solo più tardi i produttori più lungimiranti ne comprendono le grandi potenzialità, soprattutto alla luce dei metodi moderni in vigna e nella vinificazione. Le aziende produttrici si ristrutturano nuovamente. Si passa dalla produzione massiva per la cisterna all’imbottigliamento, si migliorano gli impianti grazie anche all’introduzione dei disciplinari DOC che fissano nuovi e rigorosi standard di qualità. Questa è quella che potremmo definire la Seconda Rivoluzione del vino Piceno e il Pecorino è uno dei suoi simboli.